Teodolinda Varisco
L50

ARCIDIOCESI DI MILANO

CURIA ARCIVESCOVILE

IL DELEGATO ARCIVESCOVILE
PER I CENTRI E LE ISTITUZIONI CULTURALI

«Gentilissima Signora Teodolinda,

quello che mi piace della Sua pittura è la capacità di ricostruire in una tonalità infinita i colori dell’anima e le sfumature delle angosce, delle ansie, del tempo. Lei sa sapientemente dosare il sorriso, il dolore, la serenità, le preoccupazioni, le lacerazioni dello spirito, così come la natura miscela in giuste proporzioni il fascino della primavera, con la vita che irrompe con tutta la sua irruenza quasi fosse un fiume in piena, e la poesia d’estate, quando gli oggetti sembrano diventare più evanescenti e addormentarsi pigramente, immobili e indistinti, sotto la calura estiva.

L’acqua della fontana si riversa nel bacino sottostante che la raccoglie in uno spazio delimitato; il chiacchierio del suo perenne zampillare però penetra nel cuore del passante che lo porta con sé e lo rivive a distanza. Questa è la sensazione che suscita in me la sua pittura. Non è qualcosa che si ammira al momento e che si sbiadisce nella memoria; è invece un qualcosa che col passare del tempo si staglia più forte e più vivido nell’anima. Vi sono diversi modi per accostarsi alla realtà; Lei preferisce cogliere l’alone di mistero che aleggia attorno alle persone ed alle cose.

Dalla finestra uno si sofferma a guardare le macchine che sfrecciano e che poi sono costrette a fermarsi al semaforo; un altro tende l’orecchio ai ragionamenti più o meno sensati che la gente si scambia mentre cammina frettolosamente; Lei scopre una luce aggirarsi in mezzo al trambusto della vita, rarefarsi, trasfigurarsi, assumere volta per volta contorni nuovi.

La luminosità che avvolge i suoi quadri rimanda a una sorgente. La fonte della luce che cos’è? Dove abita? Perché tutto ne porta in sé una briciola e una scintilla? Per questo a mio avviso Lei dovrebbe lavorare sopratutto sulla essenza delle cose, che abbaglia la luce e che si riflette in essa.

Come ci invita a fare la leggenda siberiana, noi dovremmo ripetere l’esperienza dell’uomo che si fermò ad osservare con stupore una zolla di terra. La guardò una prima volta; le apparve una misera cosa, un semplice pugnetto di terriccio.

La guardò una seconda volta; la zolla aveva perso i contorni; si era trasformata in un campo esteso senza siepi e senza limiti.

La vide una terza volta. La minuscola zolla era un continente sconfinato.

Sono convinto che un uomo possa essere figurato, con-figurato, raf-figurato e che l’esistenza di Dio sia percepibile nell’intreccio intricato di linee, che costituiscono la vita, a volte continue e a volte tratteggiate, spesso evocantesi l’un l’altra, nella orditura di voci e di suoni che confluiscono in una sinfonia ininterrotta di colori naturali, ma per lo più ricavati da una mescolanza dei colori fondamentali, nella trama di assonanze e di consonanze, di armoniche e di accordi spesso inattesi, di corrispondenze imprevedibili. L’artista ha la mente immersa nel Sublime, respirare con i polmoni dell’eterno e si sintonizza con il pulsare e il battito del cuore di Dio.

L’astronomo ricostruisce le mappe del firmamento; l’astronauta scopre delle strade, dei circuiti, delle orbite inesplorate e vi si incammina. Nella Sua avventura pittorica Lei tira fuori dallo scrigno segreto la ridda di volti che vi conserva, magari a lungo e li riveste con le forme della vita. Spes in reditu vitae. Così, scompaginando le simmetrie e le asimmetrie del déjà vu, i Suoi quadri effondono un palpito di speranza della quale la nostra cultura»

 

Milano, 15 febbraio 2000

Mons. Giovanni Balconi