Teodolinda Varisco
L50

Presentazione della personale

"Pollini e scintille", Chiostro di San Giovanni ORVIETO (Tr).

Non lo so POLLINI E SCINTILLE


Presentare una mostra di pitture significa presentare i manufatti, la lavorazione di manufatti prodotti da un’artista che coinvolge i propri sentimenti coagulandoli in impasti materici, in colori vissuti attraverso l’esperienza della forma. Ebbene in questa mostra di Orvieto, il cui titolo è “Pollini e scintille” (da cui parte questa tournée per l’Italia che vedrà la conclusione di nuovo in Umbria l’anno prossimo) rintracciammo da subito l’esperienza sintetica che l’artista intende rappresentare. O meglio se il pittore rappresenta qualche cosa di assolutamente “espressivo” per quello che concerne la maniera di manifestare una determinata opinione sentita, quindi, se la capacità è una capacità ideativa, fatta immagine, ecco troviamo una qualche difficoltà nel confrontarci con un linguaggio che è alieno a quello pittorico ed è quello “descrittivo”, il parlato, e quello scritto, ma che attiene ad un’altra capacità di linguaggio, ad un altro esercizio, ad un’altra semantica
Dunque presentare significa “tracciare” se non altro una guida sintetica, un qualche cosa che possa confortarci (una sorta di salvagente per incanalare idee in un percorso guida di lettura) e che ci possa condurre alla verifica di alcuni elaborati; ma che possa dare l’opportunità di lettura di una qualche esperienze che ci confronti e ci conduca. Così, rispetto a quella che è la realtà.
Realtà visibile, udibile e percepibile, realtà vissuta.
Questa è la sensazione che noi abbiamo leggendo quelle che sono tutte le mostre di L50: “installazioni”, esposizioni che come qualche amico giornalista dice non sono assolutamente mostre di cartelli stradali ed in effetti, a gran titolo, anche la presente mostra di Orvieto in questo contesto paesistico estremamente luminescente e stupendo noi troviamo e riscontriamo profondamente.
Soffermiamoci su alcuni dettagli di questa esposizione: anzitutto lo spazio architettonico, un contenitore-espositore prestigioso, il Chiostro di san Giovanni in Orvieto è stato voluto dall’Arciprete del Duomo sul finire del Cinquecento ed è stato ideato come chiostro rinascimentale con un quadriportico centrale, un pozzo centrale, caratteristico di queste zone, su insediamenti iniziali etruschi. Un “claustrum” pensato al fianco della chiesa dedicata all’Evangelista Giovanni, annesso al chiostro il convento, contraddistinto dal caratteristico porticato, “misto” nell’abbinamento di rocce basaltiche e vulcaniche o meglio tufacee, le prime fanno da colonne e le seconde da cornice marcapiano e contorno degli archi. Il “San Giovanni” così è chiamato dagli orvietani è di gusto prettamente rinascimentale e quindi estremamente sontuoso.
La visione poi sulla piana verso l’infinito, con vedute di case abbarbicate fra le rocce, insediate nel complesso dell’antico quartiere medievale; fughe e prospettive giocate dal progettista che crea un cannocchiale vertiginoso orientando il pozzo per consentirne la veduta (in piena “velocità” prospettica).
Lo spazio sembra quasi sospeso. L’intera città, che si erge su di una rupe tufacea, in origine un cratere di vulcano, è stata scelta non a torto proprio per ambientare i suoi quadri che sono estremamente espressionisti ma che hanno un substrato di metafisicità.
Ecco allora che dobbiamo iniziare a calarci nel percorso di indagine di questa mostra, un po’ come i percorsi speleotecnici praticabili nell’Hunderground della Urbis Vetus etrusca (in italiano “Orvieto”).
Anzitutto debbo ricordare che Técne Art Studio ha realizzato questa ennesima mostra che segue la mostra precedente “Scintille” presentata dalla professoressa Gabriella Cattaneo, in quel di Villasanta che è stata per ben tre settimane nella Villa Camperio.
Quest’altra si intitola “Pollini e scintille”. Perché, voi direte, questo titolo? cosa ci rappresenta e che titolo è?
“Pollini e scintille” di L50, Teodolinda Varisco, l’artista usa questo pseudonimo [trincerandosi dietro non direi], come invece a dire che l’artista può superare cinquanta lire e che soprattutto l’artista è un “calibro da cento”, un tutto ed insieme un niente, cinquanta più cinquanta fa cento.
Pollini e scintille è in maniera sintetica l’immagine che può condurre a rappresentare, o meglio disegnare, con parole a livello di similitudini e quindi entriamo in un campo ove i simbolisti ci hanno insegnato, infatti noi conosciamo pollini e scintille come quell’immagine che ci può rappresentare l’idea di Dio.
Qualcuno dice che l’idea di Dio che si sappia nominarlo o no, è quell’inevitabile ....
Dio che cosa è? Ed in questa mostra troviamo una teologia delle “cose” rivelata e rilevata attraverso l’impasto materico.
Quindi cosa dire? I primi sono quadri che ci confortano, sono quadri che ci aiutano a penetrare il mistero di Dio, un mistero che l’uomo si pone -a livello antropologico- da sempre: la sua e nostra esistenza e che noi pian piano cerche-remo di affrontare e raccontare addentrandoci nello spiralico percorso di L50.
Pollini e scintille è anche un quadro prodotto da L50; è stato effettuato con degli avanzi di una vita quotidiana: di un trasloco. Alcuni fili elettrici, composti massimamente di colori primari, giallo - rosso e blu che ci riconducono ai colori di Broadway di Piet Mondrian della stagione americana dell’artista russo, quello che più ci interessa è questo inizio, un inizio che ci coinvolge, ci introduce all’interno di quella che è la forza, la capacità di parlare di L50. Un’esplosione di pollini e di scintille a rappresentare la capacità di Dio di generare, ecco tenete a mente perchè questo verbo “generare” che sarà un verbo che ci tornerà utile nelle visioni prossime, in modo particolare in quelli subito successivi: Anche amandosi si può parlare di Dio in cui l’abbraccio, un abbraccio vorticoso, un vortice, il vortice delle umane passioni ma non solo, un vortice dell’amore, un simulacro forse di quella rappresentazione del Cristo amante della Chiesa, questa “Casta meretrix” - che sta immutata? certamente no - in un tempo che muta dunque e che ama il suo sposo e cioè Cristo. Un’interpretazione teologica, eminentemente ecclesiologica, che fuorvia, per alcuni, da quello che poteva essere l’intento primario dell’artista. Un’altra esperienza del 1994 è Bagliori di carità, o meglio, come l’ho ri-intitolato io “bereshit barà Elohim” che significa “In principio Dio creò” ed è l’inizio del Libro dedicato alla creazione, il Genesi, carico di significati, di immagini che ci può accostare a quella che è la mostra ed il tema di Teodolinda in Orvieto.
L’immagine di Maria proposta è certamente lontana dalle solite raffigurazioni; un’immagine della Vergine che è “quella Donna vestita di sole e con una corona di dodici stelle”. [Un po’ di problemi di acustica, scusate, dovuti all’afflusso un po’ interrotto, le persone come sempre alle aperture arrivano dopo l’inizio.]
Maria, come una meteora, così ce la definisce Giovanni nel suo ultimo scritto l’Apocalisse.
Successivamente l’esperienza della Theotokos, cioè della Madre di Dio. Questa “Madre di Dio” è rappresentata dalla umbratilità della carne verso un bagliore di luce centrale, un’apertura, una fessura e che a livello simbolico ben ci rappresenta il Grembo di Maria, o meglio, citando Sant’Ambrogio, in maniera molto pacata e simbolica abbiamo potuto vedere la potenza di quel Dio che non disdegnò farsi carne attraverso una Donna, quindi “non horruisti virginis uterum” come ci dice appunto il vescovo milanese in una meditazione su Maria.
Poi Gesù, il Bambino -ormai ragazzetto nel tempio- che “in principio il verbo si fece carne e prese la sua dimora in mezzo a noi!”. Ecco questo passo altamente teologico e spirituale, questo primo accenno alla opera di lode del Figlio mediante le azioni.
Altamente spirituale e biblico è l’inizio di mostra in questa sezione. Sei tele ad olio che riferiscono sul De-Deo, su quella teologia che ci conduce appunto a Dio e che tratta argomenti di Dio.
Abbiamo un Autoritratto blu che è lo stesso utilizzato nel poster, un autoritratto che la pittrice fa notare appunto essere prodotto in maniera un po’ singolare: la pittrice stava dipingendo l’Ascensione e con le dita sporche, poiché lei usa direttamente le dita impastando dal tubetto o da composti inserendo nulla fra sé e la tela, nulla introducendo come arnese nel suo far pittura se non la lotta della purezza e della verità ai danni delle mediate e fredde menzogne, le mani invece a cantare e sfiorare il verum, ecco che nell’autoritratto blu ci dà questa dimensione: una capacità espressiva -insolita- poco mediale, dunque immediata, poco artificiosa quale può essere quella del pennello -freno motore fra lo spirito della tela cui l’artista deve sfidare in un ancestrale duello la velatura sforzandosi di dare luce ad una superficie oscura, a-croma, ed invece immetterne luce, potenza, fragore, suoni, melodie, una vera e propria danza della e per la vita e per la raffigurazione ai danni della vuotezza solinga dell’oscurità rappresentata dal vuoto, dai bianchi troppo bianchi e desolatamente laceranti, al suo interno un vortice questo autoritratto che crea dicono alcuni, la professoressa Cattaneo, io vedo più un volto al suoi interno, il volto -forse- di quel bimbo che giace nel pancione della madre e che vuole rivivere poi da nato attraverso la posizione fetale o quella positura, e quindi la forza dell’immagine si compone di questo blu dalla superficie bianca, per estrazione. Autoritratto o emblema, paradigma di ciascuno?
Figurazione -a livello contenutistico e strutturale- analoga al “Il Libro dei ventiquattro filosofi” [ignoto autore, un saggio medioevale], in cui si dice che Dio è il solo che vive del pensiero di se stesso (XX) ed è quella “tenebra” che rimane nell’anima dopo ogni luce (XXI), esperienza vissuta da Galileo e da tutti coloro feriti dal sole, o meglio ancora Dio non è nient’altro che quella immagine estremamente luminosa la cui luce dà alle creature che lo riflettono, dove al XXII “per intervento della sua triforme essenza sul nulla Dio secondo le sue forme conduce all’essere le cose che non sono, così che dal generante abbiano il principio della loro esistenza azione.
Dio è quella forza la cui luce dà alle creatura che riflettono il suo bagliore, metodo di pittura della Varisco “manifestare”, e lo intendo nel profondo significato latino, tutto questo. Dio a livello cromatico è quell’immagine estremamente scura accecante, poiché inavvicinabile all’uomo. Pensiamo ad esempio alla teologia mosaica, in particolare all’esperienza sinaitica e quindi alla “ierofania”, o meglio teofania nella fattispecie israelitica, che è stata il Monte Sinai ove la presentazione di Dio a Mosè. Quindi blu, il colore del mare e il colore del cielo, il luogo ancestrale, ove gli antichi ponevano la “dimora di Dio”, la cosiddetta “Shekinah”. Ma dunque essendo l’uomo, per noi cristiani, “icona del dio vivente” l’autoritratto in questo caso è blu.
Successivamente abbiamo un Autoritratto radiale la cui composizione cromatica ben ci rappresenta l’ultimo percorso di Teodolinda Varisco che parte dai toni verdi, blu e spenti per giungere al rosso, al giallo al bianco, alla pacificazione, abbandonando le tinte più fredde. Sul fondo il manufatto costruito su un elemento di cartone tagliato nel mezzo con un foro circolare e con quattro elementi radiali di apertura, a simbolo dell’apertura verso l’infinito che è un po’ dell’uomo, di tutti gli uomini e si riconduce al precedente, -posteriormente alla apertura circolare dicevo- reca una scritta dietro a questo autoritratto.
Successivamente abbiamo l’immagine della Samaritana unita al Cristo. La donna di Samaria si trova presso il pozzo, ed è bello -tra le altre cose notare- quanto a livello simbolico per le popolazioni ebraiche fosse importante il pozzo [che per gli orientali rappresentava il luogo nel e dinanzi al quale i giovani si promettevano il fidanzamento]. Un luogo che pacifica e benedice nella perpetuità della ricchezza la fecondità di un’unione, poi matrimonio. Dunque Gesù in questo suo avvicinarsi alla donna, in quel determinato luogo, pone la sua preferenziale opzione proprio per la categoria degli esclusi. Missione a favore dei reietti ed anche delle donne ed il messia, l’Unto, il Figlio, la seconda persona della Santissima Trinità si avvicina ad una donna doppiamente impura poiché appartenente ad una stirpe “lontana”; e costei essendo una samaritana, nessun “reb”, ovvero “maestro”, si sarebbe avvicinato. Cristo invece le si avvicina. Un Cristo che porta l’acqua, simbolo di fertilità ma anche di profondità dello spirito, sopra quest’immagine turgida è ben collocato, di oscura matericità la cui figura esce sferzante a tinte rosse, a lumeggiare i suoi capelli, da quella bocca che pare dire “sete”, chiede nient’altro che acqua, pare interpellare, pare questuare un’acqua, l’acqua vera, quell’acqua che toglie la sete. L’esperienza del pozzo, un po’ come quello che c’è in questo chiostro. che possiamo ammirare guardando fuori ed è il pozzo dell’acqua, l’acqua che genera, l’acqua che è vita, così per gli etruschi della Tuscia come per gli ebrei samaritani, l’acqua che è “Verità”, tematica dominante del testo giovanneo.
Allora subito dopo l’episodio a settentrione della Galilea, troviamo un altro Cristo con un’altra donna. In questo altro episodio al posto della samaritana troviamo la Adultera, una storia estremamente carica di significati ed è una storia che ben si avvicina sala capacità compositiva della pittrice di sfidare, di lanciare proprio delle sfide, delle provocazioni, che già le derivano da quelle del nostro Maestro e modello, il Cristo appunto. La adultera viene condotta a Gesù poiché colta in flagranza di adulterio e secondo la legge praticata in quel tempo donna deputata alla pena di lapidazione. In questo caso la lapidazione non le viene comminata poiché Gesù dice: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” una frase che fa tremare ancora oggi, un’asserzione secca ed incisiva che dà senso al nostro esistere, al nostro credere, una frase che ci conduce e ci redime ma che anche ci dà la forza di vedere quanti non abbiano potuto lanciare le pietre e come invece queste pietre rimangono lì deposte. Nel nostro caso il rosso di Levanto di queste pietre che completano l’opera (in una simbolica installazione), presenti nella parte inferiore del quadro, a sostenere questa nuda tavola appoggiata semplicemente al muro per terra, sul pavimento al di sopra di pietre che fanno da scenografia, e richiamo, alla vicenda. Le stesse pietre di colore rosso ci conducono alle linee rosse dei capelli e poi alle forme sinuose ed erotiche di questo corpo, strumento dell’adulterio. C’è qui dunque un “file rouge” che è significato da queste pietre che bene ci iniziano a questa immagine, di una donna salvata da Gesù, che effettivamente rimanda chiedendole solo di non commettere più peccato. Ma al di là di ogni indicazione catechetica quello che più ci importa è la forza con la quale questa sala inizia a mettere l’accentro su tematiche spirituali.
Le pareti finiscono con un’altra donna che non ha conosciuto Gesù, ma che ha certamente amato, un dottore della Chiesa, una donna che per tanto tempo è stata contestata e che hanno processato e la potenza maschilistica avrebbe gettato -a buon conto successiva, da quanto prima detto, alla rivoluzione di Gesù che dava potere a tutti e eguaglianza ad uomini e donne- ecco che Santa Teresa, Teresa d’Avila scrive: “Signore tu quando peregrinavi quaggiù non aborrivi le donne”. Forse Gesù aborriva coloro i quali non percorrevano la verità e allora ci torna Giovanni con quel suo scritto “Kai gnoseste ten aletheia, kai e aletheia eleutherosei umas; ossia - E conoscerete la verità e la verità vi farà liberi - (Gv. 8.31-32)”. Questa verità che ci fa liberi è dunque celata ed una libertà violata per secoli e finalmente oggi possiamo leggere a chiare lettere ciò che la Santa inquisizione aveva cancellato con una pergamena sovrapponendola allo scritto originario della D’Avila.
Nella seconda sala abbiamo Ascensione che qualcuno dice essere una liquefazione del colore, in modo particolare l’ascensione nel quadro rappresentato nella seconda sala ci indica la capacità di L50 di interpretare le sacre scritture. Il passo di Matteo proposto in didascalia, nel percorso didattico curato da Técne, ci dà la forza con la quale viene costruita l’immagine, un’immagine estremamente originale formato da un impasto grumoso di oli lavorati direttamente a mano che ci danno la forza della pittrice e ce ne rendono proprio conto seguendo un’esperienza didattica: Cafarnao. Ecco bisogna un po’ puntualizzare alcuni aspetti: questa mia presentazione ad alcuni parrà un po’ troppo teologico, e forse lo è, ma quello che ci importa è sottolineare e risaltare come in ciascuno di noi ci sia l’influsso, e tanto potente, delle sacre scritture, o meglio quanto le storie nostre ripercorrano le vicende bibliche. Dunque di ciascuno una salita verso Gerusalemme, una seconda Ascensione, la prima è un’ascensione-trasfigurazione, allorquando Gesù dinanzi ai suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni con i quali si era ritirato in preghiera sul Monte Tabor, il monte della Trasfigurazione, in un certo senso un’ascensione dello spirito, una salita a Gerusalemme l’altra, con toni estremamente accesi, sferzanti come quelli di L50: il rosso della passione presagio fa anche da mantello a Gesù e poi in fondo la città gialla, una città che indegnamente già anticipa quell’u-topica Gerusalemme celeste, invisibile, un cielo limpidissimo e i suoi attoniti attorno a seguire le istruzioni.
Tu lo dici ci introduce nel vivo della Passione. Un’ennesima provocazione - anche questa sulla scia di Cafarnao 1997 - duplice: una persona sfida L50 ad una verifica la stessa che viene proposta da rappresentanti di altri partiti, o di altre religioni, vere o presunte ce lo ha capacitato la storia, a Gesù e che cosa c’è in tutto questo di così tanto rivoluzionario. Orbene la scelta del materiale, una locandina di una manifestazione trascorsa ed il suo supporto che stavano per essere gettati via, quindi a fermare proprio il tempo che corre il pittore fissa questa scelta di fissare la propria attenzione a quell’interrogazione “tu sei il re dei giudei?”, questo il quesito posto da Ponzio Pilato successivamente al trasferimento dell’imputato Gesù nel sinedrio; era prassi dopo un processo privato come è stato quello di Gesù, una cattura vigliacca nella notte senza tutti i suoi potessero realmente accorgersene -e non solo i dodici ma tutti quelli che tifavano per Gesù-, allora c’è una verifica e arbitrato civile perchè il capo d’incriminazione non potrà essere “religioso”, un reato non punibile, esercitando la capacità di regnare di Gesù sulle stirpi israelitiche, dunque quel “tu sei il re dei giudei”, dal giudicante laico estraneo ai fatti bensì capace della titolarità del giudizio, e “tu lo dici!” ne è la risposta limpida, secca che lascia proprio indelebile l’ascoltatore che si lava poi le mani in quel gesto plateale che è passato anche alla storia dell’iconografia, e del cinema. Ciò che importa di più affermare “Tu lo dici” è una duplice provocazione, iniziale di Gesù ma a ciascun uomo in attesa del credere noi dovremmo porre queste domande e dovremmo porci in questa dimensione. Dinanzi alle provocazioni bisognerebbe rispondere come fa L50 squarciando questa locandina per far affiorare una tela di iuta ed in pochi gesti essenziali l’esistenza perfetta e assoluta della divinità-fatta-uomo.
Un’immagine abbastanza preziosa per le ascendenze, mi ha sempre fatto pensare a quelle deposizioni tragiche di sculture in legno o terre cotte policrome di gusto rinascimentale dai toni cupi e foschi del soffrire di una Vergine addolorata, o meglio a quell’umbro di Todi, Jacopone ed alla famosissima Lauda del “donna eccu tu fijo...”. A rappresentare, questa icona moderna, quella Madre che piange, di quella madre che vive vedendo il figlio messo in croce, la stessa che lo ha partorito nel Mistero, è la forza generatrice un po’ il “Madunà” della Liguria che a livello antropologico ha un suo assunto estremamente alto. Madre e figlio
Successivo al patimento la Risurrezione. Una risurrezione questa tripartita il cui volto triangolarmente allungandosi verso nella rappresentazione del Cristo con la barba e ci dà la dimensione di quello che è realmente.
Un Dio dal mare che può essere, anche, letto come un Poseidone, una divinità marina, ancestrale e comunque qualcosa di estremamente metafisico, o classico.
Noli me tangere, dalla composizione rigidamente simmetrica che non evidenzia la caratteristica dell’esplosione fauvistica tipica di L50 e dunque si nota che la pittrice ha utilizzato un fondo appartenuto a qualcun altro, alla figlia, che glielo ha prestato che ha completato sottolineando quel grano, quel cielo; l’immagine è del Cristo che appare a Maria, la quale piange per il suo signore che ne hanno portato via il corpo -così crede-, che chiede subito sei stato tu a portarlo via e questi gli risponde di no e la interroga per nome, non si conoscono e dunque capisce che è Gesù e subito l’esultanza Rabbunì -che in ebraico antico significa maestro nostro-, e questi di risposta a lei e al toccarlo di questa, il Non mi trattenere, il “Noli me tangere!”.
L’immagine caratteristica del Giovanni Evangelista, come la Chiesa attesta: l’immagine del discepolo prediletto. E’ il discepolo che ha avuto -non solo la fortuna- la grazia, di essere il Figlio; “Donna ecco tuo figlio, figlio ecco tua Madre!” allora in questa luce il discepolo è il continuatore -se prediletto-, il “filius” o meglio l’Alter filius e questa rappresentazione è effettivamente intenzionale e a livello grafico, a livello pittorico, noi tracciamo tantissimo della capacità di Giovanni -il discepolo- di penetrare proprio il mistero del maestro. E’ quasi un’assunzione del discepolo delle fattezze del Maestro, si pensi alle religioni orientali in particolar modo riguardo questo principio di identificazione nella emulazione e di assunzione delle caratteristiche esteriori, quelle anche somatiche; tutto questo riguardo lo studio della tipicità di assunzione dei tratti fondamentali del Maestro nel discepolo andrebbe condotto con un’analisi ben più dettagliata che tenga in considerazione, anche, la recente teologia delle religioni e un punto, o meglio lo spunto, di approccio fra mondo buddista e cristiano, proprio in questa direzione, occorrerebbe perciò molto più tempo e spazio.
Ora, per non tediare nessuno, entriamo nel vivo con la vicenda di Marta e Maria. Sempre brani evangelici ma di una potenza, di una capacità che superano l’inverosimile poiché Marta e Maria rappresentano un po’ la storia di tutte le donne, questa storia infinita di ciascuna di loro. Qualcuna si potrebbe difatti specchiare in queste due protagoniste e trovare. In primo piano sta Marta -l’esclusa- l’esclusa in maniera assoluta, persino dalla sorella, colei che non poteva ascoltare neppure Gesù -e rappresenta a pieno titolo, personifica l’incapacità della donna in quegli anni partecipare all’ufficio della lectio divina ebraica e della commentatio- che era invece disteso, come era pratica e usanza in quel tempo, a parlare ed attorno la folla dei discepoli fra i quali, lì in quegli attimi una donna privilegiata- Maria. L’una ascolta mentre l’altra vive con passione il fare, i mestieri della casa: è estremamente bella questa visione, romanticamente controversa in un gioco di specchi, forse in quell’emblema del riscatto da un modo di intendere la vita ed il rapporto uomo-donna e certamente il ruolo attivo della donna e che questa ha ed assume grazie a Cristo.
L’Ascensione quella vera, da me rinominato “Pantacreator”, ove il lumeggiare di blu, direttamente di rimando al cielo, è un vero spettacolo per i nostri occhi. Orbene in questa raffigurazione mi pare di scorgere a livello di spirito l’intensità riformulata della classica visione absidale del cristo di Monreale a Palermo, ove l’immagine ieratica e centrale di un Cristo salvatore ma che sarà Giudice alla fine dei tempi. Suggestivo, alla fine di questo corridoio, quasi la fuga per ogni spettatore, nell’ultima parete di perimetro nella seconda sala abbiamo questo caposaldo, questa icona giocata sullo spumeggiare di blu e bianco, come un’onda, dall’evocazione, inconscia e mai intenzionalmente diretta bizantina vissuta dalla Varisco e trasferita sul supporto tela in un modo originale. Appare dunque una vera Icona della modernità.
Di seguito la schiera dei Santi che cantano la loro Lode.
A iniziare il percorso troviamo Ambrogio, il Santo Vescovo milanese, che vive certamente come ciascuno -forse più di altri per la sua sensibilità- nel suo tempo e piange i peccati dei suoi contemporanei.
Immagine interessante e fuggevole Benedetto catturato coi colori della sua Norcia, della sua Castelluccio ove si ritirava per pregare magnificando lo spirito nello splendido piano grande, poco distanti. Dipinto a buon dovere di cronaca nei primi mesi del presente anno in quelle terre insieme a Rita. Questa a tinte molto più sfolgoranti, più “focosa” e ne dà l’idea dello spirito agostiniano; questa santa degli impossibili ha vissuto il martirio di un matrimonio fallito nel naufragio della disperazione ed il rifiuto di vivere la sua vocazione... Rita, una donna essenzialmente, in modo bellissimo un bagliore dello spirito nella sua esistenza questo fulgore di amore, confortata da questo nelle numerose limitazioni.
Passiamo ad Assisi, Chiara e Francesco. Chiara è fatta con terra (assisana) e luce, così hanno chiesto che venisse rappresentata alcune delle sorelle di Santa Chiara il giorno 20 febbraio il giorno della chiusura del convento di Santa Chiara in Assisi, lesionato dal sisma del ‘97. Per quello che concerne l’immagine successive un Francesco d’Assisi, esperienza di diversi anni orsono, “compenetrato” come ama definire la pittrice e debbo per forza sottolinearlo in questa dimensione poiché rende la capacità evocativa di un catarsi spirituale nelle cose.
Marta e Maria, Ambrogio, Benedetto e Rita, Chiara e Francesco, di seguito una Candida (fondatrice contemporanea ambrosiana dell’Ordine delle Romite S. Ambrogio Ad Nemus, realizzato dal Cardinal Giovanni Battista Montini attraverso Monsignor Pasquale Macchi negli anni dell’imminente dopoguerra) che dà origine a un Ordine che recupera la Regula Ambrosii e la realizza con Paolo VI quello che oggi esiste come ordine fondato. Dalla proto-comunità della Bernaga di Perego ne son sorte altre due. L’immagine ci rende la forza di una donna che ha costruito un nuova comunità su basi spirituali storiche, quella Regola appunto voluta dal Vescovo Ambrogio, nel quarto secolo. La figurazione di L50 si avvale di un’esperienza di polimatericità gesso e sassi rossi di Levanto, così come piacevano alla Madre, e a contorno del volto, anziché marcarne con un segno roultiano nero continuo, una serpentina di colonne di giornale ritagliate a simbolo delle parole vane spese per il mondo donna.
Chiara di Montefalco un’altra agostiniana, poco conosciuta ma estremamente significativa. Nella “ringhiera dell’Umbria”, così è definita Montefalco un colle che si staglia nella piana centrale dalle parti di Spoleto, abbiamo un santuario dedicato a Chiara della Croce. In questo anno dedicato a Dio Padre, a Dio l’Altissimo un riferimento a Chiara della Croce, un’amante folle di Dio, del Figlio e della trinità, amante del simbolo della Croce al punto di portare nel suo cuore i patimenti della Passione di nostro Signore; alla sua morte, operandola dalla schiena le consorelle scoprono un cuore che contiene segni del patimento del Cristo, diverse croci.
Una passeggiata nel parco con un ritratto, immagini un po’ fuori dalla capacità di Linda50 di ideare per immagini? La Lindaccia, ovvero la Nonna, una madre coraggio, esempio laico di Te Deum, immagine della nonna della pittrice che però non ha conosciuto, morta qualche giorno prima della sua nascita, ma che è una donna forte, una “filandera”, una donna dai forti contrasti: sposatasi con un anarchico pur essendo di famiglia cattolicissima, una donna che amava il sacro Cuore ma che teneva il volto di Matteotti di sotto al Cuore di Gesù nei tempi del fascismo. Protagonista sempre la Lindaccia anche nella passeggiata dove la Contessa Rossi di Monza accompagnandosi con la damigella dialogava con una giovinetta distesa, la nonna appunto.
Padre Pio in una frase poco conosciuta: Il mio passato alla tua misericordia, il mio futuro alla tua Provvidenza, il mio presente al tuo amore. Una crosta di cappuccini, forse la sintesi dei molti conosciuti fra cui la spiritualità di Leopoldo e Cecilio Maria, indubbiamente accomunati dalle caratteristiche essenziali, somatiche, del Beato Padre Pio da Pietrelcina.
Il passaggio all’esperienza dell’Angelo della Apocalisse, il terzo che versa la coppa dell’ira nei fiumi e nelle sorgenti delle acque che divengono e si tingono di sangue, un confronto con le Scritture più sapienziali dai contenuti estremamente profondi sulle cause ultime, un discorso soterologico per immagini. A seguire -uniti da una rete da pesca da fiume di Mons. Merlini, canonico della Cattedrale di Milano- abbiamo il Lungo il fiume II una tecnica mista del 1997 che dà un’ascensione di questo fiume verso chissà quali mete, un riprendere il discorso sulla escatologia appena accennata con l’Angelo, presagio di superamento di tutte le razze e di ogni futile campanilismo, per giungere al mare, un po’ come il ritorno alla casa del Padre o meglio “Ritorno al Padre di tutti”. Vi è dunque il senso del Ritorno, ed il suo Mito, come diceva Mircea Eliade e c’è questa circolarità come sottolineava la professoressa Cattaneo, nelle esperienze degli autoritratti, circolari come abbiamo già veduto all’inizio, e poi alla foce.
Il Mito del Ritorno dunque degli uomini, preso da un angolatura diversa, poco più a valle, di un fiume, la foce, che è il presagio della venuta del Cristo, quindi è un’anticipazione cristologica che il Profeta Ezechiele esercita seguendo una pista molto cristologica, così la considereremo. L’angelo del Signore si riferisce al figlio dell’uomo e cioè al profeta, lungo questo fiume sorgeranno una distesa di reti o meglio dall’ebraico antico “stenditoio” di reti, e tanti pescatori. L’anticipazione alla figura evangelica del sacerdote-pescatore sull’esempio di cristo, missionarietà però data anche a noi tutti dal battesimo nel sacerdozio universale a tutti, quindi l’anticipazione di un giorno in cui l’uomo sarà nuovo. Ma la figura del pescatore, ossia il “sacerdos” ma non alla maniera di Melkisedek bensì il nuovo sacerdote che è Cristo e dunque l’uniformarsi a Lui.
Edipo e Antigone sulla via di Colono. La tragedia classica rivisitata in maniera cristica. Ecco il perdono dei peccati, ecco la figura del cieco errante che guida colei che invece vede. Una icona della potenzialità con la quale la Varisco esprime la forza sulla tela, una forza di ritorno al padre di tutti, su questa via verso Colono, che è abitata dalla drammaturgia classica e affiancata dal suo maestro di idee, Mons. Luigi Serenthà. L’immagine del defunto compianto Rettore Maggiore dei Seminari Milanesi in questa giornata, in questo quadro, dinanzi a questa immagine torna alla mente la presentazione del caro professor Bertazzini il quale afferma “il modo di fare i ritratti della Varisco è un modo estremamente unico, un modo mediante il quale esprime ciò che sente e dà l’anima delle cose che ha visto.
Nell’Autoritratto IV, da porre sotto l’immagine del don Luigi, abbiamo un’immagine di una Chiesa che è la Donna-Chiesa, Madre di tutti.
Di compendio a questi quasi a costituirne il contorno a queste opere che mi paiono appartenenti alla medesima unità, una cattedrale lumeggiata dai colori alla Claude Monet, la Cattedrale in realtà è san Biagio, una chiesa parrocchiale di Monza. Per i monzesi è stata un campanile caduto e la chiesa crollata e la costruzione di una nuova chiesa, e la costruzione di una nuova comunità. Ma san Biagio per i monzesi è sintetizzato in questo scritto che Técne ci propone a guida didascalica per la Cattedrale. E poi pensavo a strade larghe
un atmosfera un po’ barocca -dice- nel fumo nero di quei ceri
Ecco allora che questa Cattedrale è una cattedrale dell’anima che per i san biagini doveva essere dunque questa antica architettura, non certamente gotica, che era un sovrappiù di aspettative e di ansie , di amori, di gioie, anche di dolori confessati ma che era parte della carne e della vita degli abitanti di quel rione.
A criquet l’immagine del Cardinale Arcivescovo, il Metropolita milanese, che porta l’ostensorio sui Navigli, trasferendo l’eucarestia a noi tutti.
Un’ulteriore tematiche antropologica e estremamente teologica il Promontorio verso l’Assoluto. Un promontorio che in realtà noi sappiamo essere benissimo un luogo ben identificabile in una parte della Liguria, quel luogo che da santa Margherita Ligure va verso Portofino, precedentemente al castello di Paraggi, lo Scoglio Maggiore di Paraggi detto Punta Carega (dai giovani che si tuffano dai suoi quindici metri) ben visibile dal Convento della Cervara fra Nozarego e Paraggi poco dopo il Covo di Nord Est. Questo quadro ci dà l’espressione come sottolineava mons. Serenthà del promontorio verso l’assoluto, ossia la capacità di ciascuno ergersi promontorio verso l’assoluto, ma soprattutto del sacerdote “tirare fuori” capacità di essere nell’assoluto, per l’assoluto, dell’assoluto e verso l’assoluto.
IL Mistero trinitario “Ama et fac quod vis!” ci aiuta a dimensionare questa realtà e questa è la definizione classica per antonomasia di Sant’Agostino. I colori dell’aurora tipici: viola, questo celeste un po’ sparso nel rosso in mezzo all’arancio che va verso il giallo, a tendersi quasi in un cuore -disegnato peraltro nel giorno del sacro cuore, quasi dunque celebrazione e non più pittura- con l’immagine iconica estremamente materica di un Cristo che esce da questo bagliore a tinte dorate; ci dà proprio la dimensione, il corpus dell’opera.
Tutto è Cristo per noi, nell’immagine di questa Damasco, la Città Celeste, il De Civitate dei, quasi visione infinita che noi abbiamo: Io sono la luce del mondo chi seguire me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita. Questa fulgente luce di vita è rappresentata nella figurazione della pittrice dal sole, da quel bagliore, bagliore di carità che è l’eucaristia, prodotta come tela nel 1997 quindi nel pieno dell’anno eucaristico dedicato alla “figura” (nel senso latino del termine), del Figlio. Ecco il lumeggiare di queste case a rappresentare sinteticamente l’habitus dell’ambiente vissuto da Gesù, questa Gerusalemme, visto però cogli occhi giovannei e soprattutto con quegli occhi di quella Gerusalemme Celeste che sarà il tutto è Cristo per noi!, di quella città che non vedrà mai tramontare la luce, ove sarà sempre giorno e quindi una città fatta di luce.
Infine a chiusura di questo percorso e di questo mio lungo discorso che certamente sarà letto, spero che non lo sia con molta noia, udito da voi e finalmente nella sua conclusione: la Partenza. Partire, azione fontale di ciascuno di noi, per ciascun uomo ogni con la sua “partenza”, quasi a Promontorio verso l’Assoluto, ad ergersi verso l’Ineffabile, ecco di ognuno l’aspettativa della Gerusalemme celeste di questa Gerusalemme liberata, in maniera poetica potremmo anche avvicinarla, ma questa Gerusalemme è “città della luce” (ambiente privo di tenebre e deputato alla luce), “para-diso” lo stare con Dio ma ecco immagine finale della Partenza, di quel partire di quell’erkomai, di questo movimento che ciascun cristiano che ciascun uomo deve avere e deve dare per partire e per ritornare, ma soprattutto per partire, per ripartire, per “partire verso” Dio. Ecco la conclusione in questo partire, emblema dell’umana vita, questo viaggio, questa meta o meglio giustamente questa meta.
“Per raccogliere in sé il tutto bisogna essere il nulla come Gesù, abbandonato e poi sul nulla tutti possono scrivere. Solo il nulla raccoglie in sé e stringe a sé ogni cosa” e questo è il pensiero di Chiara Lubich.
Chiara, la figlia invece, “qui è racchiusa la tua anima, confessione della tua vita, emozioni provate e presagite che in nessun altro modo avresti potuto rendere” così stupenda questa azione, “dalle tue mani nasce l’opera della sofferta e continua meditazione riguardo la vita dell’uomo e del rapporto con Dio”.
[Alieno alla produzione di L50 il “Ritorno al Padre di tutti”, del figlio, e “Grazie Umbria, terra dei nostri Santi”]
Grazie a tutti coloro che mi hanno noiosamente stancamente e finalmente ascoltato. Grazie a voi. Vi ringrazio è stato estremamente bello, anche l’intervento musicale che ha preceduto questa presentazione.
Io ringrazio di cuore tutti quanti voi, coloro che leggeranno, la Provincia di Terni e la città di Orvieto, i custodi del Chiostro di San Giovanni che ci hanno consentito di utilizzare gli spazi questa domenica ed in particolare il Signor Averino Bonino il quale ci ha fatto visitare i luoghi più caratteristici del comprensorio, che si son sacrificati, ringrazio tutti coloro che hanno preso parte a questa mia presentazione delle opere di L50 a questa che sarà l’inizio di una tournée di una mostra itinerante, ringrazio chi ha preso parte a questa iniziativa, ringrazio in modo particolare la professoressa Cattaneo ed il professor Bertazzini e infine ringrazio Monsignor Balconi per lo scritto formulato sulla “Mistica della luce” che certamente ci ha dato molti spunti per poter continuare a parlare di L50, Monsignor Merlini, don Franco Giulio Brambilla e tutti quelli che hanno contribuito alla pubblicizzazione delle attività di Técne Art Studio. UN saluto caro e particolare agli amici della redazione del Giorno, che hanno pubblicato anche di quest’iniziativa extraterritoriale, del Cittadino, dell’Avvenire, del Giornale di Vimercate e dell’Esagono, il Corriere della sera ed i giornali locali (Corriere dell’Umbria, Nazione, Messaggero).
Grazie ancora è stato per un onore, è stato molto bello per il calore e la famigliarità. Grazie anche a queste ragazzine tedesche e ai loro genitori che si son fermati, forse rapiti da questa pittrice che continua da quel testamento lasciato dagli iniziatori della Scuola di Dresda, quella “Die Brucke”. Grazie.

Prof. ALESSIO VARISCO
(Designer, Artis Magister)