Mario 
                            Botta è 
                            sicuramente un architetto che nel panorama frastagliato 
                            e così complesso della modernità riesce a concepire 
                            ed elaborare “idee” di sacro, nella accezione più 
                            greca del termine di idee che si fanno immagini… 
                            E’ indubbia la sua passione e cocente bravura nella 
                            gestione della superficie esterna, quale “modanatura” 
                            in grado di rievocare altri periodi con uno stile 
                            unico, che consentitemi definirei “bottiano”. 
                           
                            «Leggerezza 
                            e gravità in architettura perché sono i due parametri 
                            che caratterizzano e che connotano il fatto architettonico.  
                           
                             
                            La 
                            leggerezza in quanto l’organizzazione dello spazio 
                            della vita dell’uomo presuppone uno spazio piacevole, 
                            uno spazio gradevole, dove gli elementi della natura 
                            –il sole, l’aria, la luce- giocano un ruolo importante 
                            per caratterizzare attraverso i loro elementi più 
                            peculiari lo spazio dell’uomo.  
                           
                             
                            E 
                            la gravità perché è la natura, il fatto logico di 
                            ogni fatto architettonico, che trasmette i carichi 
                            al suolo. Quindi l’idea della gravità io credo che 
                            sia un’idea positiva perché riporta il fatto scultoreo 
                            ad una dimensione che è sempre un unicum. La gravità 
                            vuol dire che tocca un suolo, che fa partecipe la 
                            terra madre che è il fatto architettonico e quindi 
                            la gravità ci lega ad una storia, ad una memoria, 
                            non è solo un fatto fisico legato ad una geografia, 
                            ma la gravità è un unicum».  
                           
                             
                           
                            Mario 
                            Botta rilascia questa indispensabile intervista presso 
                            l’Aula Rogers, Prima Facoltà di Architettura del Politecnico 
                            di Milano il 15 novembre 2002 all’Incontri 
                            Millennium Italcementi, per dimostrare la sua precipua 
                            sensibilità ad alcuni aspetti dell’architettura. Traccia 
                            in questa sua memoria un suo modo di intendere, tramite 
                            i suoi progetti, la “modernità” e la storia del pensiero 
                            contemporaneo. L’architetto ticinese focalizza altresì 
                            l’attenzione sul confronto fra «progettisti, costruttori 
                            e produttori di materiali per declinare la qualità 
                            tecnologica del prodotto con la dimensione estetica 
                            e l’attenzione all’uomo». 
                           
                            Dal 
                            punto di vista estetico ed organico il mio massimo 
                            plauso ad un Artista, ed architetto, che riesce a 
                            descrivere –e se ne fa voce- quello Spirito che ha 
                            plasmato l’Umanità. Nei suoi bozzetti, dai quali ho 
                            modo di apprezzare la sua franchezza per certe soluzioni, 
                            per le quali ho la medesima inquietudine nel rappresentare 
                            pittoricamente alcune sensazioni che io chiamo “liminari”. 
                            L’architettura bottiana è di emozione e che ha il 
                            merito di saper trasmettere questa enorme linfa di 
                            colui che è alla ricerca. E riecheggiano in me l’adagio 
                            agostiano: «inquietum est cor meum donec requiescat 
                            in Te!». 
                           
                             In 
                            Mario Botta, nelle sue architetture, sia che esse 
                            siano    
                             
                             la 
                            Sinagoga Cembalista in Tel Aviv in Israele, nel recupero 
                            della Parrocchiale di Sant’Antonio in Genesterio in 
                            Svizzera, nella Chiesa di San Pietro Apostolo a Sartirana 
                            Briantea o l’ultima chiesa a Seriate, si riesce a 
                            percepire una sorta di colloquio fra gli spazi architettonici 
                            creati e lo spazio esterno. Inoltre le pietre di Botta, 
                            quasi sempre l’impiego del laterizio per il tamponamento 
                            dei perimetrali esterno diviene una lauda architettonico 
                            del gusto che è stato da lui riscoperto nel ri-valutare, 
                            dandone lustro, a quello che gli storici dell’arte 
                            chiamano “gotico internazionale lombardo”, stile visibile 
                            in molte abbazie cistercensi (chiaravalle milanese 
                            e la piacentina di Alseno alla Colomba) del Trecento 
                            e stilema lombardo per moltissime facciate per le 
                            chiese.  
                            
                            Chiara è la ricerca in Mario Botta mai paga del traguardo 
                            raggiunto, in una diuturna ricerca di forme semplici 
                            che possano “accompagnare” e contenere con linee evocative 
                            di elementi “naturali”. Ed i suoi materiali sono tutt’altro 
                            che “nobili”, ad uno sguardo sommario e frettoloso, 
                            eppure sono così “puri” ed evocano spazio; già la 
                            loro superficie muta durante la giornata, in base 
                            alla rifrazione luminosa. L’evento architettonico 
                            non è solo leggibile a livello di masse che si promanano 
                            da un terreno, bensì anche quali superfici che divengono, 
                            come un caleidoscopio, immagini della luce. La luce 
                            è protagonista sulle facciate “composite” in un’austera 
                            semplicità che richiama le invenzioni della natura, 
                            le texture di una corteccia, la semplicità di certe 
                            costruzioni antiche, la magnetica forza di certi elementi 
                            che si rinvengono in natura ed anche in talune superfici 
                            di architetture primordiali o templi. 
                           È 
                            un’architettura, quella bottiana, che vive e pulsa 
                            di nuove e crescenti vibrazioni, che non si ferma 
                            a rappresentare una cubatura, che non è mai mero “abito” 
                            ma diviene il protagonista di un’avventura stupenda 
                            che è narrazione della natura stessa, della convivialità 
                            e dell’avvolgenza di materiali caldi. Questo è per 
                            me Botta, un inventore di immagini che sanno scaldare 
                            ed appassionare anche chi crede che l’architettura 
                            sia ferma a certe fasi, sino forse allo Juvarra, o 
                            al Guarini, mentre sapientemente riesce a far percepire 
                            anche al più scettico che modernità ed architettura 
                            possono ancora produrre e che l’evento formale è dato 
                            in primis dal bisogno di comunicare uno spazio migliore 
                            che possa aiutare a ritrovare quello spirituale (ecco 
                            forse la sua spiccata attitudine a “colloquiare” con 
                            contesti religiosi) per forse ritrovarsi…  
                           
                             «È 
                            chiaro che l’organizzazione dello spazio ma la luce 
                            per trovare una sua propria espressione ha bisogno 
                            dei materiali. Sono i materiali che rendono giustizia 
                            alla luce, dando la possibilità di sopravvivere, di 
                            avere una vibrazione, di segnare il ciclo solare, 
                            disegnare il ciclo stagionale attraverso un’appartenenza 
                            fisica che ogni materiale ha propria. Quindi i materiali 
                            di per sé sono gli strumenti che permettono alla luce 
                            di vivere. Da questo punto di vista in architettura 
                            i materiali sono tutti “buoni”. Non esistono materiali 
                            pregiati e materiali meno pregiati. I materiali devono 
                            però ognuno una propria espressività. Se io penso 
                            ad esempio Carlo Scarpa mi sembra che sia tra gli 
                            architetti del passato sia colui che meglio di altri 
                            “ha saputo far parlare ogni materiale”. Da questo 
                            punto di vista, il materiale, è la “pluralità”, la 
                            “poliedricità” dei materiali è una ricchezza per l’architettura 
                            contemporanea, qualche volta fin troppo perché scade 
                            in un uso legato al mercato e non alle specificità 
                            progettuale. Da questo punto di vista i materiali 
                            si offrono, e sempre più, attraverso le nuove tecnologie 
                            come strumenti straordinari per dare un po’ emozione, 
                            un po’ più di gioia di vivere all’uomo». [Mario Botta]  
                            
                            Pragmatico 
                            e squadrato come un “mattone” di una terra rossa, 
                            ferruginosa, cotta, segno e sintomo di una terra che 
                            produce anche materiale edile, dell’ingegno e della 
                            fattura di innumerevoli fornaci che a seconda della 
                            composizione del terreno e delle formule quasi alchemiche 
                            di lavorazione riuscivano a fornire particolari gradazioni 
                            a quei blocchetti di terra… Oggi l’architetto ticinese, 
                            con estrema maestria, ri-forgia quel gusto unico, 
                            nostro, lombardo, genuino, sapendo plasmare e facendo 
                            cantare le sue superfici texturizzate.  
                            
                            Ma 
                            il merito maggiore non va soltanto alla maestria nella 
                            sintassi architettonica, che in Botta riesce a declinare 
                            una capacità precipua non solo di soliloquiare ma 
                            arriva a coinvolgere tutto l’alfabeto e le varie “frasi” 
                            di ed in un lessico nuovo, bensì e –soprattutto- 
                            alla ortografia composta, all’attenzione al particolare, 
                            alla luce. Botta nelle sue opere giunge ad un livello 
                            estremo, topico. Tanto che potremmo dire che i suoi 
                            prodotti –o meglio organismi dotati quasi di un respiro 
                            proprio- di architettura, riesco ad essere autarchici 
                            e persino autoreferenziali.  
                            
                            Non 
                            è un’architettura della banalità, della convenzione, 
                            di linee concave o convesse, di mistilinee spezzate 
                            o segmentee, è l’architettura della profondità, dell’introspezione, 
                            del gioco, della radiosità, del calore dato con forme 
                            semplici ed essenziali, di materiali poveri che abbelliscono 
                            il “tessuto” delle sue facciate. Non è un’architettura 
                            di trilli e ciaccature, bensì di accordi e complesse 
                            polifonie. In Botta scopriamo vari registri. Potremmo 
                            quasi scoprire molteplici “strati” di lettura e del 
                            contesto architettonico, quasi scultoreo, e del significato 
                            recondito che ciascuna forma può e giustamente suggerisce.  
                            
                            È 
                            la bellezza della scoperta ogni volta di una forma 
                            organica eppure diversa dal passato ed in linea con 
                            questa. Non si può non cogliere quella sensibilità 
                            sottile, materica, così plastica, di giocare con pesantezza 
                            di volumi la sobrietà nell’eleganza composta. Questo 
                            è Botta, un mago, un alchimista del mattone, che sa 
                            far cantare le pietre…  
                            
                            E 
                            mi sovviene Padre David Turoldo che in una sua poesia 
                            canticchiava proprio il “canto delle pietre”. Mario 
                            Botta è un architetto che sa esprimere anche questa 
                            gioia; sa di essere parte di un tutto che è doveroso 
                            mettere in luce. Appare talune volte un demiurgo della 
                            gioia di forme semplici che accompagnano la nostra 
                            vita così contorta. 
                           Questa, 
                            a mio modo, la sua ineguagliabile grandezza. Per contro 
                            potrei analizzare gli aspetti irrisolti di molti suoi 
                            progetti realizzati: le lacune formali in talune chiese, 
                            la non applicazione fino a fondo della Sacrosantum 
                            Concilium (forse la sua nostalgicità in taluni altari 
                            così centrali), troppo spesso la non percorribilità 
                            di certi spazi (ad esempio la non sfruttabilità del 
                            quadrato sulla sua diagonale). Ma vorrei in questa 
                            mia breve lettura mettere in luce le positività di 
                            molti suoi progetti, il suo desiderio di “bagnare”, 
                            quasi come gli impressionisti col pennello, le sue 
                            facciate. E le sue chiese, da proporzioni non modeste, 
                            ma mai così svettanti come i capolavori gotici, hanno 
                            in sé quella brillantezza che le trasfigura e le rende 
                            dei veri e propri monumenti in grado di stagliarsi 
                            contro l’elemento aria, di entrare in colloquio coi 
                            colori di una giornata e a seconda delle ore “tingersi” 
                            in maniera nuova. Questo è per me Botta!
                           Fotografie 
                          delle opere bottiane